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sabato 28 maggio 2011

Giovanni Pascoli

07 febbraio 1992 —   pagina 32   sezione: CULTURA

QUEL CHE PASCOLI PROPRIO NON SAPEVA
Giovanni Pascoli continua a essere il più discusso, e se non mi sbaglio anche il più studiato, dei nostri poeti di fine Ottocento. Quanti critici e scrittori di versi sono tornati sul Pascoli negli ultimi quarant' anni? Il perché di tanto interesse è un po' complicato da spiegare. Intanto è accertato che l' autore di Myricae, dei Canti di Castelvecchio e dei Poemetti ha influito profondamente, non meno di Gabriele d' Annunzio, sul rinnovamento poetico della prima metà del Novecento; basta pensare ai crepuscolari, a Ungaretti e soprattutto a Montale (che è intriso di Pascoli quanto di d' Annunzio). E in grazia di che cosa ha influito? Dicendola in breve: per il carattere evocativo e l' andamento parlato della sua lingua, per le squisitezze tecniche (l' uso naturale del lessico vernacolare, la sintassi franta, i particolari "umili" adibiti a funzione simbolica e non rappresentativa), per i sottofondi irrazionali e "perversi" sfiorati e insieme elusi dalle parole. Noi amiamo in Pascoli questi sottofondi innominabili, amiamo quel decadente che egli non sapeva di essere e non avrebbe voluto essere: il poeta di Gelsomino notturno, Il sogno della vergine, Casa mia (dove l' apparizione della madre morta "non anche sazia di lagrime" consente al poeta di confessare piamente al fantasma la sua vita soave "tra le sorelle brave", "tra le sorelle pure"). Poesie dei Canti di Castelvecchio, a cui è d' obbligo aggiungere le pregiatissime Il vischio e Digitale purpurea dai Poemetti. Come si vede, le nostre preferenze non sono originali. D' altra parte, i problemi evidentissimi dell' influsso di Pascoli non c' interessano più direttamente. 


E allora avanziamo un' ipotesi: si continua a discutere e a studiare il Pascoli perché si è attirati dalla mostruosa contraddizione tra certi suoi altissimi esiti e la sua pertinace, coltivata ignoranza di sé. Una strategia dispendiosa L' espressione ignoranza di sé può sembrare troppo vistosa e brutale. Ma tant' è. Essa ci fa toccare senza reticenze il punto paradossale del Pascoli. La sua poesia più attraente per noi, la più nuova in assoluto per le qualità visionarie e la maestria dello stile, si fa strada attraverso una immane Rimozione. La strategia difensiva messa in atto dal poeta è dispendiosa. Gli è costata l' accusa di essere querulo e vittimista. Ma non s' è forse capito da un pezzo che la presenza ossessiva della morte e il ricorrente motivo del pianto, andando ben oltre le note vicende biografiche, non fanno che compensare la sublimazione morbosa e spesso melensa delle represse pulsioni libidiche? "Nel mio cantuccio d' ombra romita/ lascia ch' io pianga sulla mia vita!". Di conseguenza non stupisce affatto che il Pascoli fornisca nel Fanciullino una poetica suggestiva ma incongrua, diciamolo pure, buona a tutti gli usi. Il suo lirismo più morbidamente ambiguo, straziato nella fuga immobile, nasce nonostante la poetica romantico-popolare e falso-antica proclamata in quel famoso saggio. Il quale ha consentito letture parziali e distorte variamente fertili. 


Ho sentito affermare tante volte che in quelle pagine si esprime l' idea simbolista della "poesia pura". Ora, la poesia pura di cui parla il Pascoli è tale perché, fuori di proposito, con innocente naturalezza, "di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l' umanità". Se si legge tranquillamente il contesto del Fanciullino, risulta del tutto evidente che la "poesia pura" argomentata dal Pascoli non ha niente da vedere con quella dei simbolisti e decadenti. E' invece quella che per istintiva bontà ignora il male, lo schifa, essendo una cosa sola con la "virtù". Il pasticcio teorico del Pascoli sta sotto i nostri occhi, se vogliamo vederlo. Da un lato c' è il principio poetico autonomo, libero da ogni condizionamento, la "poesia pura" (e qui Pascoli sarebbe vicino a Edgar Poe, Baudelaire, Mallarmé); e subito dall' altro lato, c' è il sentimentalismo virtuoso che assegna alla "poesia pura" un confine naturale: l' impoetico (sottolineatura del Pascoli) "è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l' estetica proclama brutto". C' è da domandarsi se nel Fanciullino la difesa strategica non si faccia esplicitamente puerile per tenere a bada ciò che la poesia, forse, chissà, nella sua purezza ingovernabile, potrebbe voler dire. Si è dato troppo credito a questa poetica che per fortuna corrisponde solo parzialmente alla poesia pura e impura scritta davvero dal Pascoli. Ed è anche tale groviglio di equivoci che attira l' attenzione e lo studio. Piange e piange senza ritegno, il fragile poeta, ma nasconde più di quanto rivela. E con ciò non "rigenera l' umanità", ma fa il bene della poesia. 


Di una cosa il nostro poeta era iperconsapevole, del fatto che la poesia è un' arte. E l' arte, si sa, non soltanto è studio; è continuamente lavorìo, ricerca di spunti, manipolazione di influssi, incrocio e "riscrittura" di fonti, elaborazione di effetti, laboratorio. Perché il poeta s' arrabatta tanto (e del resto gli piace di arrabattarsi e bricolare)? A sentire lui perché a forza di "studio" può ritornare ingenuo, ritrovare dentro di sé il mitico perenne ragazzino; e poi, furba innocenza, perché impara così "a far diverso" dai suoi modelli. Ecco ancora un aspetto seducente, un modo di lavorare (non insolito) che stimola le indagini se è possibile reperire indizi e prove; manoscritti e appunti dell' autore, abbozzi, lettere, libri che ha letto e utilizzato, correzioni, e così via. E' chiaro che in tal caso l' esame esegetico delle poesie si arricchisce di fatti e di ipotesi illuminanti. Sotto questo aspetto, Giuseppe Nava è tra coloro che hanno indagato con più profitto la poesia del Pascoli negli ultimi anni. Dopo aver procurato l' edizione critica di Myricae la ristampò nel 1978 con un eccellente commento, cui seguì nel 1982 un' edizione analogamente commentata dei Canti di Castelvecchio (nella BUR). Ora ripubblica Myricae col commento riveduto e ampliato (Salerno Editrice; pagg. LXXVIII-350, lire 55.000). 




Prima di avere in mano questo volume curato da Nava non mi passava per la mente la voglia di rileggere il "romanzo dell' orfano" (come Giacomo Debenedetti definì Myricae per affermarne l' intenzionale struttura costruita in parecchi anni e numerose edizioni). Ma il commento del curatore non è soltanto un lavoro di filologia e una ricognizione critica dei contributi altrui, e un sobrio campionario di proposte interpretative. E' appassionante come esempio di metodo. A volte, leggendo le note di Nava, potete tenere la persona di Pascoli quasi per prototipo e, sbirciando nel laboratorio, osservare stupiti come lavora un poeta. Non starò a enumerare la fitta rete di influssi ricostruita da Nava e le reminiscenze da antichi e contemporanei, italiani e stranieri (il curatore accenna anche alla prodigiosa e inconsapevole memoria poetica del Pascoli). Se il punto di riferimento importante è, ovviamente, Carducci, altrettanto notevole è la presenza tematica e linguistica del primo d' Annunzio, e anche scontati sono i rapporti con gli altri poeti della scuola carducciana (spunti ricavati da Panzacchi, Mazzoni, Marradi, per esempio). Meno scontata la presenza in Myricae di Tommaseo, Aleardi, Praga. E c' è il Prati, c' è lo Zanella; e Victor Hugo e Gautier; e Poe. Particolarmente interessanti sono le fonti erudite o di prosa, come Il cannocchiale aristotelico del Tesauro, che secondo Nava potrebbe essere la prima fonte delle onomatopee uccelline, derivate poi pari pari da La vita degli animali del naturalista tedesco Brehm. Sapevate che vengono di lì le voci dei passeri e delle rondini: scilp, scilp, dib, dib e vitt, videvitt? Curiosa l' elaborazione del passo manzoniano della vigna di Renzo in una poesia, Lapide, che peraltro presenta qualche affinità con una composizione di Hugo. E così La notte dei morti corrisponde a un episodio del romanzo L' eredità di Mario Pratesi (apparso nel 1889). Numerosi sono gli spunti manzoniani e leopardiani; ma più colpisce l' importanza, sottolineata da Nava, di un' opera di Michelet, L' oiseau, "per la formazione della simbologia naturale del Pascoli". Una poesiola, Morte e sole, può scaturire da una massima di La Rochefoucauld, un' altra da un passo di Omero, o da Saffo, o da Cicerone. Tutto è buono per il poeta che mette in forma un proprio sistema. E qual era il sistema del Pascoli: di pigliare le cose, tutte quante, le piccole e le grandi, animate o inanimate, il fuscello, il musco su una pietra, un uccello, una nuvola, un oceano, uno scroscio, un sibilo, una voce, una gallina, un sogno, una persona viva o morta, pigliare le cose e miracolarle. Ma per Pascoli miracolarle non voleva dire risanarle; al contrario: voleva dire farle apparire, nelle parole lucide e sonanti, per quello che sono, ombre struggenti, fantasmi variopinti che scemano verso l' oscurità e l' ignoto. Una poetica che sta a mezza strada tra Victor Hugo e il decadentismo. E secondo me la si legge al meglio nella poesia intitolata appunto Il miracolo, che, osserva giustamente Nava, è il testo più vicino alle Corrispondances di Baudelaire e alle Voyelles di Rimbaud (ma non perché derivi da quelle). Potrei commentare a lungo questa bella poesia, viziata tuttavia da un' enfasi che sarebbe stato facile evitare. Pascoli è troppo modesto, immagina che un mago, il poeta che è dentro di lui, gli tocchi gli occhi e che le pupille si aprano alla visione della natura. L' enfasi, superflua, è tutta qui; ciò che il poeta vede, la gradazione dei colori è stupendamente raccolta nelle cinque strofe, dal bianco al nero. Tutto è visione, eppure tutto è molto semplice. Non abbiamo visto anche noi a volte "in cielo bianchi lastricati con macchie azzurre tra le lastre rare"? Le nuvole sanno assumere anche tale aspetto (da non confondere con le pecorelle). Mai spiegare ai lettori L' inizio esclamativo, vagamente evangelico ("Vedeste, al tocco suo, morte pupille!"), con quel "Vedeste" ripetuto nell' incipit di ogni strofa, tranne l' ultima, ci mette un po' a disagio, depotenzia la normalità allucinata delle immagini affidate a prescelti effetti fonici (per un poeta simbolista consapevole della propria poetica le analogie tra colori, immagini, suoni vocalici, non si sarebbero mai appoggiate all' eccezionalità di un "tocco" esterno). Eppure, 


Pascoli sapeva benissimo, o lo imparò, che una poesia, per quanto strana possa apparire, non deve spiegare ai lettori che sta per essere misteriosa. Se è vero che Myricae è costruito come un romanzo lirico autobiografico, bisogna tenere a mente che esso si apre con il mestissimo, lacrimevolissimo Il giorno dei morti, e si chiude con il delirio d' immobilità di Ultimo sogno, dove il poeta, guarito di una malattia, in un silenzio improvviso vede al capezzale la madre morta e la guarda "senza meraviglia". E' libero, ma non vuole esserlo, è inerte, guarito ma come morto. E sente un fruscìo sottile, assiduo, come di cipressi, "quasi d' un fiume che cercasse il mare/ inesistente, in un immenso piano:/ io ne seguiva il vano sussurrare,/ sempre lo stesso, sempre più lontano". Un romanzo notturno sentimentale e funereo. Che potrebbe anche avere una sinistra attualità.  
di ALFREDO GIULIANI

Una lingua inventata, il pittore sincronista

Una lingua inventata, il pittore sincronista
Alberto Savinio, real name Andrea Francesco Alberto de Chirico (25 August 1891 - 5 May 1952) was an Italian writer, painter, musician, journalist, essayist, playwright, set designer and composer. He was the younger brother of notorious meta... (http://video.omennomen.it/videorlabs/audiocassette/)

mercoledì 25 maggio 2011

Ricordo di Alfredo Giuliani

Nella vicenda letteraria italiana, sono i Novissimi che si sforzano di decentrare l'io poetico (l'io tronfio e delirante di vecchia memoria), attraverso l'esercizio di un'intelligenza non mistificatoria. Un'intelligenza lucida, che non rinuncia affatto a perseguire la letteratura, ma pretende di farlo in un modo intellettualmente accettabile; riportando sulla scena della letteratura un'esigenza etica che si era usurata e consumata nel dopoguerra e parlando addirittura di necessità del fare poesia, nella volontà di rifondare una civiltà letteraria come quella italiana, impastata di malintesi e di cattiva coscienza. Che poi questo ambizioso progetto sia riuscito a tutti, è un altro conto; ma, certo, si è trattato di un progetto di grande rilievo e di notevolissimo livello. E l'anima intelligente ne è stata, senza dubbio, Alfredo Giuliani. Proprio perché, in lui, intelligenza e talento si bilanciano in quella composizione di forze che, come diceva Barthes, è in grado di dare forma letteraria all'idea. E' un fatto che non si può non sottolineare, parlando della "scrittura" di Giuliani: una scrittura sempre letteraria, anche quando ha le forme di un saggio o di una recensione. Campo di una letteratura che nasce dalla letteratura stessa, viaggio attraverso i percorsi della parola. I saggi di Giuliani, Le droghe dì Marsiglia Autunno del Novecento, sono specchio delle poetiche e poetica essi stessi. All'insegna di quel vincolo di necessità della letteratura di cui si diceva.
C'è, nella scrittura di Giuliani, sempre "un dialogo ritmico tra le parole"; parole che pensano se stesse e che si attraggono e si respingono. E questa straordinaria virtù, naturalmente, appare come evidenziata nella sua poesia. Per la potenzialità stessa della poesia; perché, come riconosce nella sua consapevolezza critica lo stesso Giuliani, "la poesia sa di poter concentrare in sé, virtualmente, una significanza profonda e anche una possibilità di gioco con i colori e con il corpo delle parole".
La ricerca verbale, nello spazio particolare della poesia, si svolge tanto in senso verticale, nella frammentizzazione analitica della parola, quanto in senso orizzontale, nell'estensione del tratto linguistico. Due sensi di marcia secondo i quali Giuliani ha proceduto, in questi anni, contemporaneamente. Tra le ultimissime raccolte Poetrix Bazar è la prova massima e ricapitolativa, in un certo senso la summa dell'opera poetica di Giuliani, e non inganni il limitato numero delle poesie lì raccolte, perché si tratta in realtà della miniaturizzazione di un vasto e lungo lavoro condotto dall’autore sul verso. Anche nei testi più recenti, Giuliani appare uniformarsi a quel fortissimo senso della forma o dell'efficacia formale della poesia che è uno degli assi portanti della sua formazione estetica o, se si preferisce, della sua poetica.
Giuliani, tra i più tenaci e rigorosi sperimentatori di circuiti inediti del discorso poetico è tra i più profondi indagatori della scrittura poetica e testimonia nei versi di Poetrix Bazaar un ulteriore passo in avanti, nella definizione puntuale della "sostanza impossibile" attraverso la quale il poeta si determina come soggetto parlante/scrivente. Il godimento della lingua che struttura la lingua stessa, nello specifico del "maneggiamento poetico" delle parole, è uno dei riferimenti dell'esperienza di Giuliani e, forse, la cifra stessa della sua scrittura poetica. Tanto nella direttrice delineata in verticale, secondo l'altalenante successione di consapevolezza-inconsapevolezza, attività-passività, del soggetto parlante/parlato; tanto nella direttrice delineata in orizzontale, sulla scia dilagante della scrittura agente/agita.
"Una poesia è vitale", ha scritto Giuliani, "quando ci spinge oltre i propri inevitabili limiti, quando cioè le cose che hanno ispirato le sue parole ci inducono il senso di altre cose e di altre parole, provocando il nostro intervento; si deve poter profittare di una poesia come di un incontro un po' fuori dell'ordinario". Ecco, la stratificazione della poesia; ecco, i fondali profondi della poesia; ecco, la successione dei piani, la linea a spirale.
Raramente, c'è una piena corrispondenza tra gli assunti teorici e le prove effettuali come accade per Giuliani. I risultati sulla pagina, divaricati nell'architettura dello spartito musicale, sono sicuramente tra i più significativi della poesia di questi anni. Costituiscono un punto di riferimento per i più giovani, una somma di esperienze decisive da cui i più giovani hanno imparato molto. Nei suoi libri di poesia, a dispiegarsi sulle pagine sono partiture musicali (e non solo, per esempio, quelle della prima sezione della raccolta Poetrix Bazaar), secondo una variazione costante che dal tono angosciato slitta a quello divertente-divertito, alternando quadri compositi fino al polittico e singole tavole minime fino alla tabella, e mescolando dramma e farsa, tragico e comico, da “Pensando a Emily” allo scherzo delle sorelle agonine, per arrivare allo sciabordante scioglilingua finale “Caro mercato di paese antico”. Ma, si sa, per Giuliani l'anarchia del nonsenso è stimolo creativo, e ha continuato ad esserlo. "L'insensatezza", ha scritto, "è un mero contenuto del nostro mondo: qualcuno se ne servirà per manifestare la propria insensibilità o un comodo cinismo; per altri sarà l'unica possibile e sofferta soluzione stilistica. Il non-senso è divenuto un materiale iconico, come le madonne e gli angeli delle antiche Annunciazioni".
In particolare, testi come le stesse Partiture, oltre a testimoniare l'inarrestabile slittamento del linguaggio al grado dell'insensatezza, sono le forme che pure dichiarano quella sorta di rifondazione della poesia di cui Giuliani si fa portavoce. Prima di tutto come "mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato". Ma anche, e direi soprattutto, come reinvenzione di un'identità formale della poesia. Nella specie di una ricomposta "scatola sonora", capace di nuovo di legare in un'orchestrazione le sue armonie e disarmonie; in una musica dodecafonica, frutto di una sapiente regia metrica e tonale. E non si può certo trascurare il patrimonio specificamente metrico della poesia di Giuliani: nella ripresa di forme tradizionali (come la canzonetta o il madrigale) dentro la struttura polifonica di un nuovo libretto d'opera che ha messo a frutto l'energia ritmica della tradizione e l'armonia ardita delle avanguardie.
Volendo poi parlare dei pezzi forti dell’ultima produzione, sono a rispecchiamento quasi di contrasto Il badante di Eraclito (nel segno della complessità architettonica) ePoesie per il mio cane (nel segno della semplicità più lineare), si può dire che testimoniano oltre alla grande umanità di Giuliani la sua formidabile attrazione per la musica. Il suo orecchio di musicista fa preferire all’autore una musica di suoni nuovi, di ritmi che individuano anche le dissonanze, la possibilità di piegare gli strumenti a suoni imprevisti e a forzare la gamma. Uno dei problemi della musica contemporanea è stato l'esaurimento delle combinazioni. Si potrebbe dire la stessa cosa della poesia.

Pubblicato su:
Literary nr.12/2007

Ricordo di Alfredo Giuliani
saggistica
Autori
Paolo Ruffilli

domenica 8 maggio 2011

Leopardi di Alfredo Giuliani

Leggiamo un altro passo dello Zibaldone, del 1828, decisivo per capire come stanno veramente le cose: 
«All' uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando,il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna,udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbiettista tutto il bello e il piacevole delle cose».
Ecco il punto perfettamente proustiano intorno al quale ruota l'intero sistema del nostro grandissimo Giacomo: tanto la poetica e la poesia, quanto la prosa, il sentimento e la filosofia dell'esistenza.


Raddoppiare l'esperienza non è unicamente ricordare, sovrapporre involontariamente una sensazione o un'immagine passate a una sensazione o immagine presenti; è anche rovesciare il presente su se stesso e percepirne il fantasma, quella materialità dolorosa che sta passando,che si distrugge nell'atto di formarsi, e il cui passarepassato sarà forse misteriosamente recuperabile in un altro futuro momento sfuggente.
Il raddoppio può prendere la figura della proiezione e dello sdoppiamento (sarà Silvia-Leopardi, sarà la morte bella fanciulla e la morte sanguinaria di Amore e morte),la figura dell'anticipazione, dell'illusione tolta e restituita.
All'orribile contraddizione della Natura, all'essere per la morte, all'infelicità dell'esistente nato per la felicità e ingannato:fin dalla nascita, Leopardi risponde con la sua contraddizione, con la sua eroicomica renitenza. Sciopera contro l'Universo (ivi compresa la società e le sue ideologie),nientemeno, perché l'Universo è un bieco, sfruttatore del Desiderio umano, un repressore del piacere, un inetto e ipocrita persuasore di godimento: infatti non è riuscito a far di meglio che confondere l'amore, noi diremmo forse l'orgasmo, con la morte.

Non sembrerà strano se dico che l'attualità di Leopardi confina con l'attualità di Sade: la stessa glacialità implacabile e la stessa percezione sfrenata della Natura criminale.
Ma dove Sade si scatena a secondare voluttuosamente..