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sabato 2 aprile 2011

Teatro nudo

il difficile imprendi nel suo facile
ed adopera il grave nel suo lieve

Lao Tse
Sono arrivato al teatro per una strada, credo, così insolita che può darsi non sia neppure una strada. Può darsi benissimo che sia tutta una divagazione: nondimeno la cosa mi appassiona, e intendo andare avanti e indietro, su e giù, dentro questo spazio teatrale che mi sono aperto fruendo, probabilmente, di una infinità di suggestioni ma senza badare, di fatto, a nessuno.
Accenno qui a due premesse anche se possono apparire scontate. Quello che mi ha sempre attratto nel teatro è la tensione particolare creata dal dialogo, cioè la forma stessa del teatro, il suo linguaggio. Nondimeno, fino a otto mesi fa, non avevo fatto alcun serio tentativo di scrivere una commedia. Qualche abbozzo sùbito lasciato, due o tre assaggi di scene a distanza di anni l'uno dall'altro e nati da occasioni esterne. Insomma: nessuna persuasione, una passione incostante ma profonda e tante riflessioni e riletture di testi moderni e di qualche antico.

Due sole letture emozionanti di testi contemporanei: Beckett soprattutto, e Pinter. Idea di due linee di teatro moderno: l'una che passa per gli espressionisti tedeschi e fa capo a Brecht, l'altra che da Cecov attraverso Pirandello giunge al primo Innesco e a Beckett (ma sono, s'intende, due schematizzazioni, tant'è vero che includo in questo secondo filone il teatro di Jarry e dei futuristi). Seconda premessa: la mia esperienza,bene o male, di scrittore di poesie e di critico della poesia a me contemporanea.
L'interesse per nuove costituzioni linguistiche e per il dialogo tra poeta e lettore furono (e restano) i due criteri naturali che presiedettero alla operazione involontariamente clamorosa dell'antologia I NOVISSIMI a cui lavorai dall'agosto '60 al gennaio '61. Nell'introduzione parlai della visione «schizomorfa» del poeta contemporaneo, e ne riassumevo i caratteri tipici: la discontinuità del processo immaginativo l'asintattismo / la violenza operata sui segni cioè la giustapposizione e compresenza di vari ordini di discorso / la scomposizione e ricomposizione della struttura sintattica / la semanticità della frase sospesa o interrotta dal premere di altre frasi / l'asprezza o l'atonalismo del metro. E parlai del vero «contenuto» come di ciò che la poesia fa sul lettore proprio mediante i suoi giochi linguistici. Accennai anche all'esaurimento storico di certe categorie che in passato avevano reso poetico il linguaggio «contemplativo» e «argomentante» del vecchio logos illuministico e poi romantico (tutti e due degradati, giustamente ma pure inefficacemente, nel crepuscolarismo).
Devo riconoscere oggi che questa teoria poetica mi si adattava soltanto con qualche mediazione, e direttamente era verificabile soltanto in tre o quattro delle mie poesie più recenti. Fu in quel tempo, dopo l'uscita dell'antologia, che mi misi a sperimentare il collage. Non avevo un programma ben definito, mi spingevano quelle ambizioni teoriche, riflesse chiaramente nel lavoro dei miei amici e nella mia ricerca. Ero stupito e divertito dalle inedite possibilità semantiche dei brani di giornale (titoli, occhielli, sottotie spesso oltre l'intenzione del giornalista): ritagliando e rincollando, quei brani di lingua usata e spesso forzosa mi si componevano e ricomponevano quali «pezzetti percettivi» di un mondo linguistico compiutamente diverso da quello che avevo conosciuto al principio della mia poesia in versi. Qui la lingua ambiva al significato più intenso; prima di essere «montati», i sintagmi erano lavorati dalla coscienza; ne risultava un mondo fissato nella dimensione del pensiero e non in quella dell'oggetto. La dicibilità non era vissuta come un campo, ma piuttosto quale discesa in un pozzo. Invece, nell'operazione del collage la dicibilità, sia pure sconnessa slabbrata e priva della profonda costrizione del sogno, si riapriva enormemente: nel collage saggiavo i quanti di frustrazione e la carica di rivolta, l'umanità e la beffa che si potevano immettere nel mondo linguistico meno «poetico» che conosciamo. Andando avanti nella ricerca (e nel gioco che questo tipo di esperimento comporta, almeno quale misura precauzionale) anche frasi e brani ricavati dallo stesso contesto dei giornali cominciarono ad affermare una loro strana vitalità. Richiami di cronaca, spunti di aneddoti, piccoli o grandi simboli impreveduti: nel trascrivere il testo degli ultimi collages fatti nei primi mesi del '63 mi accorsi che non erano che impasti dialogici. È di qui che comincia il mio spazio teatrale. Ora prendo il mio dialogo dove lo trovo, ascolto i discorsi al caffè e sulle porte dei negozi, considero una fortuna i «contatti» telefonici, e leggo sempre i giornali in quel modo «materico» di cui mi son fatto un'abitudine e che corrisponde in realtà al modo più frequente con cui la gente legge effettivamente. Non finisco di stupirmi di come la gente parla e di come la gent e legge.
Nel mio procedimento c'è senza dubbio più di una analogia con quello che seguono certi pittori della pop art. Non so se sia, come dice il mio amico Paolo Emilio Carapezza, sulla scia di Adorno, un modo (l'unico, per il momento) di riscattare da degradazione del logos a utensile»; è certamente un modo (l'unico, per il momento) di riscoprire la necessità del dialogo nella specifica sua forma drammatica. È la natura del procedimento che mi interessa, non la sua occasionalità empirica: come ho preso a trascurare il collage vero e proprio, una volta scopertane l'interizione (che in principio ignoravo: a tutto pensavo fuorché al teatro), potrò in avvenire abbandonare il bricolage dei «pezzetti percettivi» e magari inventare direttamente l'oggetto teatrale. Ma / bene inteso: valga quel che valga / la dimensione che ho creduto di scoprire resta essenziale. Naturalmente, l'operazione del collage ha due aspetti: il bricolage, cioè la raccolta e il deposito dei materiali; in secondo luogo: è un sistema di proiezioni (nel senso psicanalitico) e, viceversa, un repertorio di fenomeni «esterni» (gli «altri», il mondo). Al montaggio, poi, deve soccorrere un problema, un'invenzione guida. Ma la partitura che ne risulta deve comportate la possibilità di letture e interpretazioni sempre differenti. Il teatro deve apparire quella cosa insieme tangibile e illusoria che di fatto è.

A questo punto spero che sia chiaro perché non voglio identificare i personaggi e descrivere nel contesto l'azione scenica. Dirò, con una lapalissade, che per me il linguaggio teatrale è tutto il teatro. Tendo all'eliminazione delle zeppe, le riduco al minimo. Le battute sono tutta l'azione e se c'è, nei miei brevi testi, un'ambizione è precisamente quella che il lettore (o l'ipotetico regista) «sentano» immediatamente (fuori battute nella partitura, e così inventano la loro storia. Ciò che deve essere nel teatro è il dramma, e la battuta deve contenere in sé tutto: gesto, personaggio (uno dei tanti possibili), configurazione dello spazio teatrale (non necessariamente un fatto).

Pirandello non ha proprio insegnato niente? E che importa l'azione nel Re Lear o nell'Amleto o nel Coriolano? Dov'è che nel teatro accade qualche cosa? Nella battuta in verità che cosa accade? Non lo so, non voglio saperlo: la lettura o la recitazione facciano il dramma, facciano le loro cento parti in commedia.

Naturalmente, nella misura in cui le mie piccole partiture teatrali si allontanano dalla nozione corrente di manufatto drammatico, io mi sento autorizzato a chiamare «poesie di teatro», non proprio nel senso di Cocteau ma perché muovendo dalla più umile e occasionale origine le battute vi lavorano a suscitare o risuscitare nella forma quella liberazione a cui aspii-a la poesia. Può darsi, come ho detto in principio, che sia tutta una divagazione; a ogni modo, la buffa strada che mha condotto al teatro mi concede ora di intravedere un rapporto con la «Vita nuda», di penetrare nello spazio dramma-i ico tale e quale, di lasciarmi andare, per dirla 1,011 John Cage, dal niente verso qualche cosa.