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lunedì 21 dicembre 2009

Versi

    

da Il cuore zoppo (1955)


I cacciatori di grilli

Nel campo avanzano a cavallo sulle scope i cacciatori di grilli.

Soffia nel corno di latta il battitore al salto dei cespugli.

Ah, trattieni un poco i pensieri

Come questi trucioli leggeri

Che al filo dei recinti il vento padrone attorcigliò;

A palmo a palmo indietreggia, le spalle mature all’occidente,

Fino al disarmato fortino dentro il petto.

Il dolore ch’ho perso

E che m’ha fatto qual sono, il bimbo vecchio nomade d’amore,

È un idolo di pietra che mai alcun voto interrogò.

Varcano i cacciatori l’ora buona del tempo

Nel crepuscolo dei grilli e degli aromi.

Chiaro come un brivido d’ossa nell’oscurità,

Scende meco per sempre il bimbo, la mente piena di mani,

E salta la cespugliosa età.


da Povera Juliet e altre poesie (1965)


Predilezioni
II

Non c’è rimedio al disordine d’aprile,

scossa di paradiso dei cieli che spurgano

e rovesciano l’inv 212r172c erno nei fossi, dei venti

che s’irradiano asciutti di colpo.

Non c’è rimedio a quei nostri disguidi,

al lezzo delle rose, notturne per la mente

e per l’aria gelose. Amore sempre fiorisce

prima del conoscere, in un buio tremore.

E il rammarico non apre questa porta chiusa,

fa misera la lotta, tradisce solitudine.

L’odore disfatto in scirocco soffoca le sere;

e non c’è onore, né calma, né tregua.

III

Prendi il nero del silenzio, tanto parlare

disinvoglia la nuca, in sé pupilla, palato

di cane, oppure pensa le notti che risbuca

nel gelo il firmamento dei gatti, amore.

Prendi l’alito dell’ansimo nero, così dolce

in punta di lingua, fumo di mosto s’arrotola

sulla fronte, mescola l’osceno e l’assurdo,

cambia di posto, e sia come non detto, amore.

Prendi il volo nero, valica l’altra tua vita,

voltano il fianco i terrori, non gridano più.

Un sorso d’alba, che nausea, è splendido ora

questo barbaglio stanco, mucosa fiorita, amore.


Azzurro pari venerdì

Come devo comportarmi, domandai per sapere (per avere,

invece, si chiede) se l’ala nera sarebbe infine abbattuta.

L’astrologo disse: (il destino): generalmente buono,

sarà accaduto e non dovrà rimpiangere, di fianco la luna

falcata, radiosa, considerando l’epoca, una piccola soddisfazione

(in pieno giorno galleggiare nel prato), la posizione

potrebbe indurla, di Urano o l’inverno che viene dagli spazi,

coincide con qualche amica o parente, non esiti a farlo,

procurandole notorietà (rumore di cesoie dal giardino),

allo scopo discreditarla, tenga sempre con sé il talismano,

sarà un mese piuttosto monotono.

E lo psichiatra disse: (a proposito del sogno): l’immagine

del bambino con la merda in mano è il mondo

largo luminoso vuoto stretto oscuro colmo elevato profondo

mobile impuro immobile sudicio contagioso disgustante

accogliente minaccioso illimitato doloroso

velenoso vischioso decomposto penetrante

fisiognomico ignominioso numinoso è il mondo

sanguinoso tagliente spermatico molle terrificante

dissipante vertiginoso appropriante metamorfico

vendicativo scaltro ostinato innamorato sia chiaro

finché non (finisci di penetrare nella penetrazione) ritorni

alla contemplazione (il cancello ha una leggiadra gualdrappa di edera) e

io risposi: che bella pace qui, dove gli oggetti scavano

la loro superficie: volevo voltarmi, ma è fuggita piangendo.


Ball-paradox

per Achille Perilli

Le risorse statistiche della danza sono le elitre, i vessilli

lenzuola di farfalle, limbi di ninfe graffiti, amori

che volano, vascelli arrembanti drogati di larve, emblemi

opachi dell’impaginazione che racconta di scheletrini ermafroditi

soffiati con anima di papavero, di vermi con la tunica, addomi

signiferi di vele, drammi filatelici, smottamenti di miniature

in scroti filanti, astronavi della cenestesia

Achille è un insegnante di ginnastica putativa,

un massaggiatore di lobi balneari, paesaggista per cineteche

di campagna, allevatore di clitoridi libellule, erborista e

cavalleresco pittore di battaglie retrattili

al critico anale, magazziniere, museiforme, più lascivo dell’anitra,

disinfestatore, spazzino, cuoiaio e mercante di stoffe

lascio la stima maniaca del grafico e del diafano perché (sembra,

infatti, che l’arte sia ormai pienamente apprezzata dalla società

per il suo linguaggio muto, e questo è un risultato

fatalmente povero delle meravigliose rivoluzioni di ricchezza;

“così la pittura s’è appagata di aver perduto spazio e mondo,

di cui l’uomo ghiotto avrà sempre bisogno”) perché tutti

entrino

entrino: edili, nautici, archeologi, entomologi, astrologi, mitologi,

psicologi, droghieri, musici, chimici, giudici, figurinai, anacoreti,

avvocati, chirurgici, agenti segreti, detectives privati, politici, bricconi,

spioni e grafologi; e infilino

infilino le perline del calzolaio per il ballo

senz’altra industria che non sia di piacere e amare

un accoppiamento autunnale


da Il tautofono (1969)


Io stesso e il teatro

nei lunghi periodi di silenzio mi sdraio sotto gli ampi cieli di una scala

di servizio o mi appollaio pensando che quei bravi cavalieri cavalcarono

il loro lurido lupo alla scuola di danza fu sempre un bene per me se cerco di capire

quel che sto pensando intrecciare le dita stirando gomiti e pollici

in fondo lei spiega il mantello di lepre sull’erba pelosa come voi che dolce

pulsazione pelvica quando alza il ginocchio e scopre la lumaca il corpo è tutto

in grandezza naturale che avanza come in sogno i movimenti rallentati nel plasma

io non chiudo gli occhi le braccia in posizione di guida su un camion fiammeggiante

il tonno guarda in su tra bordure di salvia scarlatta è verde-blu come le rape

cinesi e dev’esserci un significato nascosto se il pavimento è un vetro nero

e le ragazze affusolate in una città sconosciuta s’inoltrano a tentoni levando

grosse bolle di tenero profumo da sotto i raggi della luna e anche inciampano

ce n’è che ballano sulla superficie vetrosa di un torrente vedo il ricamo

delicato dei piedi la foresta ansima e un esercito di muscoli trasporta

senza capire utili ombrelli sulla schiena finché un gruppo di fuggiaschi in corsa

simula di scaricare la tensione diurna nell’ululato del lupo sono gli abitanti

ora se cerco di capire la nettezza delle sconcertanti onde del corpo immobile

della tigre stordita o uccisa tra i giunchi non permetto al terzo occhio

di eccitare la mia fronte l’ano se ne dorrebbe a tal punto che il teatro credo

opera di mistero e applauso supposta da uomini e bestie intelligenti risorgerà
Favola dell’indigestione

avevo l’acqua in bocca lo stomaco tutto botanico e misi il dito liquido nella zuccheriera

guardando l’abito smesso nero appeso in quel tempo fetale che mi annodarono le caviglie e

mi farà bene riflettevo stupefatto della grande produzione di pensieri essere quasi morto

ne presi uno per la collottola sgusciante e sputai le parole suppurate con polpa e nocciolo

ne spruzzano larve bianche arruffate provando una fiducia simbolica che sto per grufolare

in sogno l’acqua si apre fine delle bollicine riabbottonare il cappotto spiovere di berretti

scricchi di scarpe lucide di freddo e fumanti mani di lana che scalpitano corte illuminata

da una grande lumaca elettrica sorniona ai turbini piumosi branchi d’inchini offe parrucche

pervincoli balenanti da gole mogie di veneri poltigliose è il momento confuso di stornare

l’abiezione attento a scaracchiare nella segatura è un segno della grazia oh cupa slogatura

del caso mi distraggo al soffio di stalle afrodisiache “Lucullo!” esilarava la zia dal forno

totem e gas il tredicesimo mese sangue coniglio scava la casa quartana di esplosioni

[la crema

prima singhiozza un batracio bonario lussurioso quindi un pesciolino languido agita la

coda della serva poi quasi vinto dal sonno una papera muta borbotta sotto i testicoli

per me adoratore di cavalle frusciò di corsa deliziandomi l’ippomane urlo occhietti

[nel buio

cerato di pellicole lunari inseguivo straziato l’immane inquisizione dei nomi animaleschi

palpavo lente frotte torve e tribadi come vacche percorrendo limbi ventilato di vituperio

divorando le dita nel colletto tignoso ah i nomi erano tutti inutili ridevo forte buffo

mistico pupacchiotta è il crampo dell’uccello guardiano l’autunno del pipistrello l’estasi

del pappatacio lo spirito atteso dove devi tornare stanotte che ha digerito solo il coniglio
Episodietto della sera

la pasticca è caduta dalla garza turchina di schianto nell’afa gonfia dei battelli a vela

poi la pioggia di latta toc tic toc tic branchi di bollicine affiorano la raffica scialba

scopre l’acre odore di acquitrino allega il palato nel dito maniaco dei suoi capelli e ci

voltiamo alla passione della sera specchiante nelle grinze delle vetrine parole spruzzate

di mare verso l’oscurità che s’accapiglia intorno al buco in cui scivolano le dita accese


da Chi l’avrebbe detto (1973)


Chi l’avrebbe detto

Chi l’avrebbe detto, invitato a pranzo scherzavo,

impedimento accecante, mordevo il cappello, non dicevo

niente: ho il naso finto, si spengono le luci, finché

scoprono che distruggevo rispettosamente un mondo;

ragazzi! invece era davvero lo spolpamento del sangue.

È detto, la chiamo col suo nome ma la costrizione

resta, allungo le gambe ma son corte, mi riassetto,

mi trasferisco da una natica sull’altra, ma la fitta

è qui, nel mezzo; ragazzi! che cosa avrebbe dato quest’uomo

al suo paese se non fosse stato costretto a morire?

Enumero a precipizio, fingo di dormire, emergo dal lago

solo per ridere, metto in guardia l’uccello mortale,

mi riconcilio, volo all’appuntamento, ho bisogno;

mentre decado le brillano gli occhi, rive spopolate dove

vado in punta di piedi, spettri che non sono altro.

Un’ora dopo, grandi sciarpe dai tetti e per le strade,

da vero cristiano che deplora l’Italia, la Cina, il mercato,

toccando la borsa, non avevo nemici, mi tuffo tra i brividi

interni, approvo il tipo freneticamente medio, sono fuori

pericolo, sul piano «Povero cor, che pensi?» cerco l’aria.


da Versi e nonversi (1986)


Mi piace immalinconirmi

Mi piace immalinconirmi sul materasso della pioggia

mentre il tuono trafelato s’allontana col suo fragore

membra viscere nervi s’abbandonano alla molle pantomima

un soffio salmastro lambisce le ossa che scottano

discontinue venerazioni della pigrizia

gola spellata come un logoro tappeto arido di polvere

niente più presagi la presenza è un sacco bucato

puoi perdere tutto lentamente o scaricarti di colpo


Gloria militare

Il mio unico titolo di gloria militare

è la renitenza alla leva repubblichina,

sette mesi di antinaja clandestina

sotto l’occupazione tedesca. Ma di ciò non è traccia

nel mio foglio matricolare. Sono un miles ignoto

della resistenza privata.


Grovigli e gocce

Grovigli e gocce.

Dolori mi lasciano

per una pena più nera.

Anche l’uomo se ne va

lasciando il peggio.

Una volta avevo tempo

perché ero svelto.

Ora che sono lento

non ho più tempo.

Quel chiarore perso,

lanterna che oscilla

sul palo impiccato,

è l’amore che dorme

nell’occhio rovesciato.

La rondine vola per fame,

l’usignolo canta

per mettere in guardia i rivali,

e tu giri, giri, rapace debolezza,

per trovare i tesori

della crudeltà amorosa.

da Ebbrezza di placamenti(1993)


Quanto ai fiori

Quanto ai fiori, ti dirò, preferisco

la circostanza che li pone a nostro agio,

la sorpresa o l’offerta di mattino

in una stanza, o la presenza notturna

che li stempera, li disfa sulla soglia

d’una ospitalità ambita, incongrua.

Oppure devono risplendere al naturale

come quei papaveri sui declivi magri.

Stammi bene, topo!

Un topo trappola nel buio, lui o lei topolastra,

subitanea ombra soffice scatta, freme il bidone,

fisso la coda dell’ombra, urto di panico separa

in trappola; in qualche buco recondito scivola

defecando, scommetto. Ciò che destina rosicchia

e salta, esiguo affarino, la visione imprecisa

ti scappa addosso, sfiora l’ombra tra i piedi

una repulsione d’affetto. Ti rannicchi, brancoli,

t’intopisci, preso e lasciato ansimi in tondo,

t’inverni prudente, da mai a sempre intrappolato.

Che topata la vita, eh, topo?

Once more unto the breach

Ancora una volta ancora una volta (ogni anno

sollevo la schiena e guardo fuori dalla finestra)

il tale pazzo o in cima trovo di colpo debole e svilito

dal tetto alla soglia ruzzolo a terra è normale.

Furioso bevendo camomilla mi aggrappo alla ruota

abbagliante fisso i meriti ripeto la formula

è semplice oh rapace debolezza oh vera illusione

l’occhio scodinzola festosamente esagera nel trucco.

La voce tenerissima sospesa all’eco del tuono

ancora una volta ancora una volta nel mondo morente

e nell’altro i calunniatori infestano i corridoi

gettano ombra sulla porta il dio maligno dà e lacera.

Ancora una volta ancora una volta non insisto

su questo punto sbircio da un mondo che le cose

avvengono blandisco fendo una circostanza compatta

i presagi a stormi (si sarebbe sentita volare una mosca).

Cuore leone

Questa è davvero miseria

non avere niente insomma

È avere eppure niente

È una cosa da avere

un leone un bue nel petto

Sentire lì il suo ansare

Cuore gagliardo cane

vitello orso arcuato

Gusta il suo sangue non sputa

Simile a un uomo nel corpo

di bestia selvaggia

gli stessi muscoli

Leone che dorme al sole

fiuta con le zampe

può uccidere un uomo



21 ottobre 1994 

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