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sabato 5 dicembre 2009

Che anni quelli del Ferro di Cavallo

Pochi tenaci ricordi di Alfredo Giuliani Che anni erano quelli del Ferro di Cavallo? Felici, turbinosi. Niente calcoli, solo invenzioni, incontri e stupori allegri. 1960, 1961 e seguenti, fino al ’66. Il nostro piccolo e breve e intenso Montparnasse. Ci conoscevamo tutti. Agnese, la libraia prodigiosa stava intorno a un andirivieni animatissimo e ciondolante all’interno e sul marciapiede. Per me furono anni magici. Nel ’60 comincio a sperimentare i collages. Smontavo e rimontavo una quantità di materiale scelto, specie da giornali e settimanali (anche femminili), e componevo in sequenze i frammenti (accostamenti imprevedibili, slittamenti sintattici vertiginosi, titoli che sonavano stravaganti) e li fornivo all’amico Franco Nonnis che li metteva in una forma “pittorica”, un po’ colorita e snodata sulla superficie in modi attraenti e curiosi per l’osservatore. Invece il Nanni (Balestrini) i suoi collages in bianco e nero se li faceva da solo, e risultavano più ferocemente astratti. Così ci venne in mente che la libreria di Agnese avrebbe potuto ospitarli nel retrobottega (non so come chiamarlo), uno spazio non grande ma accogliente. Non so, non ricordo se qualche cronista parlò della nostra minuscola mostra. Il catalogo poverissimo era impreziosito dalla presentazione di Gillo Dorfles; e mi vanto di aver escogitato il titolo: Dai collages alle esperienze. Era un richiamo all’ultrarealismo della neoavanguardia. Qualcuno se ne sarà accorto? L’ultrarealismo frantumato e derisorio era nel contenuto della forma e nella forma del contenuto. Facevamo cose per il piacere di farle. Ma eravamo motivatissimi. Nella primavera del ’61 esce la prima edizione dell’antologia I Novissimi. Grandi feste al Ferro di Cavallo, sfarfallare di firme e scarabocchi (disegnetti, tracce di parole) dei tre novissimi presenti (con recupero successivo degli altri due in qualche occasionale loro discesa dal Nord). Raggranellare i sentiti autografi-sberleffi dei cinque su un certo numero di copie era l’intuizione scaltra e gaia della libraia prodigiosa: così si sarebbe incrementato il valore-modernariato dell’insolito libro; quelle copie, chissà, un giorno o l’altro avrebbero allettato amatori e collezionisti. Ai tempi del Ferro e dintorni – Piazza del Popolo col caffé Rosati e la galleria “Tartaruga”, il Doc a Via dell’Oca, il Babuino e Via Margutta, Piazza di Spagna e la galleria “La Salita” in Via San Sebastianello – circolava un’aria amicale che è difficile descrivere.

Mi feci, grazie anche al Ferro, parecchi nuovi amici. Non pochissimi divennero “stretti” e alcuni potrei chiamarli “intimi”. Ma tanti erano lì semplicemente, respiravano quell’aria, non invadevano e non erano figuranti, alacri spettatori collaboravano all’invenzione di quella frizzante atmosfera. La breve Montparnasse romana! Di quegli amici ne ricordo uno, Purini, giovane architetto (o doveva ancora laurearsi?), che proprio al Ferro mi disse di essere rimasto incantato da un’immagine colta in una mia poesia: «…la finestra così comune appesa al muro è spazio/ che mai coincide con i pensieri, conosco il posto, mi conoscono/ e siamo presenti...». Ecco, fui molto contento che quei versi avessero rintoccato nella mente di un lettore del giro amicale. Li ho citati perché sbattono un po’ di luce, oggi nel ricordo, sull’atmosfera che allora circolava. Una persiana verde esposta da Tano Festa in una mostra recente m’aveva suggerito la riflessione-immagine della finestra, ma l’avevo subito agganciata alla riflessione seguente trascinata dalla musica quasi inavvertita (osco, osto, osco), che definisce lo “spazio” evocato sopra, il nostro spazio estetico, vissuto quotidianamente. Spazio non recluso, identificato in un “posto” e nei pensieri oltre che lo avvolgono. Così andavano le cose al tempo delle sperimentazioni. Dopo il 1960-’61 continuai a occuparmi di tanto in tanto di collages, ne feci un paio con Gastone Novelli e altri con Toti Scialoja. I ritagli da giornali e riviste non erano la sola fonte di materiale. Molti frammenti li acciuffavo dalle conversazioni, era materiale parlato, preso dal vivo (le occasioni erano innumerevoli) e frettolosamente annotato. I montaggi preparatori (quelli che fornivo agli amici pittori) avevano un’impronta costante: la dialogicità assurda e stravolgente. Nel 1963 ricavai da quel materiale la prima delle “Poesie di teatro”, Povera Juliet, messa in scena a Palermo nello spettacolo allestito dal Gruppo 63. L’anno dopo uscì, edito da Feltrinelli, l’antologia che raccoglieva i testi e le cronache di quel primo convegno del Gruppo. E il libro approdò al Ferro di Cavallo per una grande festa, con la caccia alle firme. La copertina disegnata da Novelli includeva 44 o 45 nomi che sembravano scritti a matita e distribuiti in nebulose escogitate da ragazzini. La copia che ho conservato per me ne ha raccolte soltanto diciotto. Tu Agnese, quante ne hai (o ne avevi) di firme d’epoca nella tua copia? Basta, se continuassi darei nel divagare.

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